Tempo di vestizione a lavoro: quando è retribuito e quando no

Tempo di vestizione a lavoro: quando è retribuito e quando no

Con la sentenza n. 47 del 1° aprile 2025, il Tribunale del Lavoro di Trento è tornato ad affrontare un tema sempre più discusso nel diritto del lavoro: il cosiddetto “tempo tuta”, ossia il periodo dedicato alla vestizione e svestizione del lavoratore, e se questo possa essere considerato orario di lavoro retribuito.
Il caso nasce dalla richiesta di un dipendente che chiedeva il riconoscimento di circa 35 minuti giornalieri, suddivisi tra vestizione con divisa e dispositivi di protezione individuale (DPI), passaggi di consegna con i colleghi e doccia post-turno. L’azienda si è opposta, sostenendo che si trattava di attività svolte su base volontaria, senza alcun obbligo.

Cosa dice la legge sull’orario di lavoro

L’art. 1, comma 2, del D. Lgs. 66/2003 (che recepisce la direttiva europea 2003/88/CE) definisce “orario di lavoro” come il tempo in cui il lavoratore:

1. è sul luogo di lavoro;
2. è a disposizione del datore;
3. svolge le sue attività o funzioni.

Tutti e tre i requisiti devono essere presenti contemporaneamente. A questo si aggiunge il concetto di eterodirezione, elaborato dalla giurisprudenza. Ovvero, un’attività è da considerarsi “lavorativa” solo se svolta sotto la direzione o il controllo del datore di lavoro, o se ne è imposto il luogo, il momento e le modalità di svolgimento.

Vestizione, DPI, passaggi di consegna e docce: solo se obbligatori

Il punto centrale della sentenza riguarda proprio la vestizione. Il Tribunale ha riconosciuto la funzione protettiva della divisa e dei DPI, ma ha evidenziato che non esisteva alcun obbligo formale di indossarli all’interno dei locali aziendali.
Molti lavoratori, infatti, si vestivano già da casa, rendendo questa attività parte della loro sfera privata. In assenza di un vincolo preciso, il tempo di vestizione non è considerato orario di lavoro retribuito.

Solo per i DPI “minori” (guanti, occhiali, tappi antirumore) è stata riconosciuta la necessità di indossarli sul posto. Tuttavia, trattandosi di operazioni di pochi secondi, il tempo impiegato è stato ritenuto irrilevante ai fini retributivi.

Anche la richiesta di pagamento per i passaggi di consegna è stata respinta. Il giudice ha chiarito che, in assenza di un ordine aziendale o di una prassi vincolante, il lavoratore non può pretendere la retribuzione per il tempo speso in tali attività.
Le timbrature anticipate non sono bastate come prova, poiché non dimostrano che si trattasse di tempo imposto dal datore.

Come anche il tempo per la doccia: è una scelta personale. Infatti, il Tribunale di Trento ha inoltre escluso la natura lavorativa del tempo dedicato alla doccia post-turno. Mancavano norme, contratti o rischi professionali tali da imporre questa attività come obbligatoria per ragioni igienico-sanitarie.
In altre parole, se la doccia è una scelta personale, non è retribuibile.

Un elemento interessante della decisione riguarda le pause retribuite previste per i lavoratori della cosiddetta “zona calda”: 15 minuti per il caffè, 15 minuti per i fumatori e una pausa estiva aggiuntiva.
Pur non risultando nelle timbrature, il giudice le ha considerate strumenti compensativi, coerenti con i principi di correttezza e buona fede contrattuale.

Conclusioni

Dunque, la sentenza n. 47/2025 del Tribunale di Trento conferma un orientamento ormai consolidato:
senza un obbligo giuridico o organizzativo, anche attività strettamente connesse al lavoro — come vestizione, passaggi di consegna o doccia — non rientrano automaticamente nell’orario retribuito.

In definitiva, il tempo di vestizione può essere considerato lavoro solo se il datore impone dove, quando e come svolgerla. Diversamente, resta nella disponibilità del lavoratore.